DabbleDrabble 2022

Il silenzio e il suono

Di Chiara Bertoglio

Alla sua morte, Maria aveva fatto fatica a riprendere tra le mani il salterio, ma si era imposta di farlo. E anche se qualche sera la voce le si incrinava un po’ quando cantava al Signore, ripensando al marito che non c’era più, sapeva che lui sarebbe stato felice di sentirla cantare e suonare ancora.

E quando il figlio tornava dai suoi lunghi viaggi a piedi in Palestina e in Giuda e nella Decapoli, gli piaceva ancora e sempre sedersi accanto a lei, e udirla cantare al Padre.

La donna aveva portato con sé il salterio anche in quel pellegrinaggio a Gerusalemme per la Pasqua. Sognava di prenderlo nella cena dell’agnello e di cantare per Dio davanti a suo figlio, che sapeva cogliere ogni modulazione della sua voce. Mai avrebbe immaginato di perdere, in un solo giorno, l’uno e l’altro. Il figlio amatissimo, morto in quel modo. E lo strumento che le ricordava la tenerezza del falegname e la sua santità. Ma nella calca e nella violenza della folla le era caduto, e si era infranto. Non avrebbe suonato mai più.

Nel suo cuore calò un silenzio tanto diverso dal silenzio gioioso e fecondo di Nazareth. Un silenzio di tomba.

Exsurge, gloria mea. Exsurge, psalterium et cithara exsurgam diluculo.

Limes

Di Giovanni Soppelsa

L'uomo cammina nella stretta e fangosa via, battuta dai cinghiali, lungo il grande fiume, ingrossato dalle acque primaverili. È la tarda mattinata, eppure il sole pare non avere la forza di sciogliere la nebbia che avvolge i faggi e le poche querce. Controlla una reticella fissata da giunchi in una modesta rientranza, ma la trova vuota di pesci. Esce dall'acqua che gli arriva al ginocchio, poi si asciuga, riveste i rozzi calzari dalla punta mozza. Immobili nell'acqua immota scorge pochi pesciolini. Si avvicina, ne vede ondeggiare i corpi bruni e lucidi, dalla corrente. Immerge la mano in acqua, fino a farne una coppa: non si muovono. Delicatamente, sfila la mano.

Torna sui suoi passi, nella foschia umida del fiume. Guarda di nuovo al cielo, velato. Il giorno prima il sole era come venuto meno, quasi allo stesso tempo ci fosse e non ci fosse. Rabbrividisce, e ritorna nel fitto del bosco. Silenzioso, cammina sull'erba. S'appoggia da un tronco liscio e bianco. È come se l'aria pesasse, sposta avanti il capo, fra le ginocchia, e lo sente come schiacciato dall'alto, attratto al basso. Respira, ma quasi con fatica. Allora appoggia la nuca.

Forse l'uomo si risveglia dopo pochi minuti, o dopo diverse ore. Il sole è sempre sfumato. Sente le labbra secche, come se l'acqua avesse abbandonato il suo corpo. Decide di tornare alle tende, e rientra nella profondità del bosco.

Sente il proprio respiro: di più, sente il proprio cuore. Quindi, distante, poco più di un fruscio. Blocca il suo corpo, e si abbassa. Il cervo taglia la sua via, ad un tiro di freccia. Si nasconde dietro il faggio, silenziosamente scioglie l'arco dai legacci, lo impugna con la sinistra. La vista è coperta. Si sposta, rimanendo sottovento. Lentamente. Trova lo spazio, tende il tendine, le dita flettono, inspira.

Solo a quel punto, il cervo si accorge della sua presenza. Lui non tira. Dovrebbe, ma non tira. La corda e la muscolatura sono tese, poi la spalla si rilassa, e la punta della freccia si abbassa. Il cervo lo osserva fisso, ed invece di voltarsi e scappare, si avvicina a lui. Può sentirne il respiro, e sa che il cervo, alla stessa maniera, percepisce il suo.

Gli passa accanto, sempre mantenendo gli occhi neri e senza bianco sul suo volto, inclinando il muso, orientando le corna. Istintivamente, lo segue. Sono a pochi passi di distanza, e tutto attorno il bosco è sospeso, come se ogni cosa attendesse, come se il tarlo non scavasse più il salice del fiume, come se la volpe smettesse di eludere, come se lo scoiattolo non pregasse più, come se la capinera non conoscesse più la danza di ramo in ramo.

Allora il cervo, arrivato ad una radura, esausto, si sdraia a contatto con il terreno. Anche l'uomo fa lo stesso, prono, e chiude gli occhi.

Allora, come dal più profondo della terra, si sentì prima un brusio, come il tuono, martello della tempesta. Poi la terra sembrò tremare, in un sussulto. Quindi espirò, e riprese respiro. Il cervo e l'uomo si svegliarono, e l'uomo e il cervo si levarono, e l'uomo guardò il cervo, ed il cervo guardò l'uomo. Il cervo si avvicinò all'uomo. Strofinò il muso sul suo petto, e la mano dell'uomo tocco prima una delle punte d'osso del palco del cervo, sorrise.

Nel bosco, dal fiume, si alzò una leggera brezza orientale che ripulì l'aria, come l'acqua che pulisce il volto dalla battaglia.

Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli

Di Patrizio Righero

  • - Sei morto. Non puoi alzarti.
  • - Dici così solo perché sono il più piccolo.
  • - No. Dico così perché queste sono le regole del gioco della guerra. Quando uno muore resta morto finché il gioco non è finito. E se sei morto non puoi alzarti. Questo dovresti capirlo anche tu.
  • - Ma non è giusto. Io voglio ancora giocare!

Igor tuffò la faccia nel prato cercando con tutte le sue forze di non piangere. Tuttavia grosse lacrime sgorgarono dai suoi occhi chiari, ingigantendo e deformando le formiche che, in fila indiana, salivano e scendevano lungo un esile filo d’erba. Salivano a destra e scendevano a sinistra. Tutte alla stessa velocità.

Il bambino allungò un dito per sfiorare quello stelo verde. Voleva vedere se, facendolo dondolare, le formiche sarebbero cadute. La sua mano si arrestò quando uno degli insetti, esageratamente grande per essere una normale formica, si voltò di scatto come a rimproverarlo. Igor batté le palpebre. Le lacrime non c’erano più però il cuore gli batteva forte.

  • - Anche gli insetti ce l’hanno con me – brontolò sottovoce (era pur sempre morto e i morti non parlano).

Il formicone non pareva avere intenzioni ostili. Semplicemente lo guardò con i suoi occhi da mostro e scese rapido in una buca. Igor, assicurandosi di non essere visto dai suoi amici ancora vivi, lo seguì. Di punto in bianco si trovò catapultato dalla luce abbagliante di un pomeriggio di luglio ad un buio così buio che più buio non si può. Non c’era più l’erba, non c’era più il prato. Non c’era nemmeno più lui. La sensazione durò un istante e poi, poco per volta, qualcosa si mosse giù in basso. O era in alto e lui si era capovolto? Difficile dirlo con certezza. Ma un piccolo sole si era acceso nel niente che aveva sostituito il tutto di poco prima. A Igor pareva di volare. Anzi di galleggiare in un’aria nera che faceva anche un po’ paura. Finché suo nonno Isidoro lo prese per mano e ci fu luce a sufficienza per vedere i suoi baffoni bianchi e lo sguardo buono.

  • - Ma tu non sei morto?
  • - Sì. Ma anche tu lo sei!
  • - È vero. Ma solo finché finisce il gioco. Tu invece sei morto morto.
  • - … fino a che non finisce il mio gioco!
  • - Non prendermi in giro – rise Igor. Poi si fece serio.
  • - E sei solo quaggiù?
  • - No. C’è anche mio nonno, e il nonno di mio nonno, e il nonno del nonno di mio nonno. E così via. Ci sono tutti quelli che sono stati eliminati dal gioco.
  • - E starete qui per sempre?
  • - Certo che no. Il maestro verrà e dirà: liberi tutti! E allora sarà luce e festa.
  • - Per tutti tutti? Anche per i morti cattivi?
  • - Invece di farmi tante domande dammi un bacio e poi tirati su che il tuo gioco è quasi finito.

La voce del nonno si confuse con quella di sua sorella Sara che lo chiamava.

  • - Igor! Dove sei? La guerra è finita. Vieni a casa che altrimenti poi la mamma sgrida me!

Il bambino si stropicciò gli occhi. Il nonno era sparito, ma era tornato il prato. Si mise a sedere. Sua sorella, di fronte a lui, lo guardava spazientita.

  • - Che cosa cavolo hai fatto finora? Hi cercato le uova di Pasqua? Quelle saranno pronte solo domani.
  • - No. Ero qui. Cioè non ero proprio qui e ho visto…
  • - Che cosa hai visto?

Igor era un bambino sveglio e sapeva che non tutte le cose che si dicono sono vere e che non tutte le cose vere devono per forza essere raccontate.

  • - Ho visto le formiche! Che cos’altro puoi vedere quando sei morto in un prato?

Abramo

Di Giovanni Bertoglio

[I paragrafi sono da intendersi come degli elementi praticamente indipendenti, e come tali si possono leggere in ordine casuale: ovviamente tra tutti gli ordinamenti possibili anche quello dal primo all'ultimo è lecito, ma anche in questo caso il consiglio è di tornare a quelli precedenti, rileggendoli, prima di affrontare la parte finale scritta in corsivo, che invece va affrontata necessariamente per ultima.]

Non esiste il tempo, così come non esiste lo spazio. Per poter esistere, il tempo, ha bisogno di un cambiamento che ne scandisca il passaggio, per poter esistere, lo spazio, ha bisogno di qualcosa che lo occupi, e io non ho modo di conoscere né l'uno né l'altro. Forse non riesco nemmeno a distinguere l'uno dall'altro.

I miei pensieri, apparentemente tutti uguali e tutti trasparenti, non possono aiutarmi: appaiono come un formicolio caotico di elementi disarticolati, un rumore bianco della mente, e queste parole non sono altro che un disperato quanto inutile tentativo di indirizzare il monotono ricorrere del caos.

Sono un anagramma sfocato e sovrapposto di ciò che dovrei essere, mentre un abisso interlocutorio si affaccia costantemente su di me.

Ogni tanto, nel mio sonno amorfo, mi sembra di avvertire qualcosa. Ho usato a proposito "avvertire" e non "sentire", perché i miei sensi, accecati dalla rosa di vuoto che mi circonda, hanno smesso di parlarmi da un tempo incalcolabile.

A volte dubito persino di esistere, ma mi fermo solo di fronte al paradosso di una coscienza senza esistenza. Sempre che possa definirsi coscienza il raggomitolarsi in questo grembo opaco dei frammenti di ciò che ero.

Mai avrei immaginato che l'assenza potesse assumere una tale quantità di volti, potesse essere così dilaniante, potesse portare quasi alla follia. Non ho ancora vissuto tutte le assenze possibili, forse, ma quella che spicca su tutte le altre è l'assenza del significato; una irraggiungibile profondità che comprime equamente in tutte le direzioni la bolla di niente che suppongo di occupare.

Percepire un'assenza significa essere padroni di un simbolo che rimanda a qualcosa, ma io non riesco nemmeno a percepire quel simbolo. Assieme al ricordo ho perso anche il concetto di ricordo, assieme alla relazione ho perso anche il concetto di relazione.

Se sono l'unico vivente come posso affermare di esistere? Se sono l'unico a poter testimoniare la mia esistenza, come posso essere certo di qualcosa? Il massimo livello di esistenza che posso esperire è la congettura.

Pochissimi sprazzi si affacciano ogni tanto alla mia mente, brandelli di un prima scomparso, se accettiamo l'assurdità di un prima. Un suono, il verso di una poesia, un viso, che nel loro comparire si dissolvono forse col solo intento di confondermi.

Poi d'improvviso il velo si squarciò, e mi apparve tutto limpido, senza macchia, rasserenante. Il vuoto che mi circondava si frantumò scomparendo, lasciando spazio ad un cielo nero ma costellato di luci piccole e tremanti, innumerevoli nella loro feconda bellezza.

Vedere, conoscere e capire si intersecavano in mutevoli ma indissolubili triangoli di luce; dove prima c'era ovunque un nulla indefinito, ora c'era ovunque bellezza, completezza e splendore. Il mio spirito non avrebbe potuto abbracciare una beatitudine più grande, e il cielo nero serviva solo a ricordarmi l'oscurità che avevo attraversato. Capii in quel momento di essere io, di esserlo sempre stato, riuscendo a recuperare appieno il significato di ciò che mi sembrava perduto per sempre. Compresi anche come si chiamavano quelle luci, e le legai immediatamente al verso inaccessibile, scritto mille anni fa, o fra mille anni, che più mi aveva tormentato durante la mia prigionia e il cui significato, allora, mi era precluso.

"E quindi uscimmo a riveder le stelle"

Diario del silenzio

Di Ives Coassolo

Detesto aprire gli occhi prima della sveglia quando ormai è già giorno. Quelle mattine ti guardi intorno e i mobili, i muri della stanza, perfino il piumone sembra scolorito. Guardo fuori della finestra. Tutto tace e tutto ha il colore dell’asfalto. Oggi non lavoro. Mi infilo una tuta ed esco a fare due passi. Un gatto grigio mi guarda passare indifferente. Non si sente un rumore in strada. Tutto tace: uomini, uccelli, alberi e fiori. Una strana inquietudine mi assale.

Eppure tutto è uguale. Oltre il parco e il suo monumento finalmente scorgo un volto. L’uomo cammina lento. Gli occhi tristi, sguardo perso nei propri piedi. Passa senza alzare lo sguardo e se ne va. Un’ombra nella via. Chissà cosa starà pensando? Chissà dove va? Cosa ha nel cuore? Chissà se qualcuno vedendo passare me si è mai posto queste domande?

Mi siedo su una panchina. Il verde del giardino sembra meno verde e le primule sono già sfiorite. D’un tratto mi sovviene il Montale: le foglie accartocciate dell’inverno ormai lontano mi guardano solitarie. Non riesco più a stare seduto. Entro nella vicina chiesa. Vuota. Come spesso accade purtroppo. La luce è spenta e stamattina non c’è neppure un fiore. La porticina del tabernacolo è aperta. Si vede il fondo lucente freddo come l’ottone. Non vi trovo riposo L’inquietudine aumenta. Mi sale una sorta di disperazione come se fossi in compagnia solo dei miei pensieri. Questi indugiano come una giostra sui miei fallimenti: tanti progetti iniziati e mai compiuti, vecchi rancori, affetti persi per colpa mia o per gli strani sentieri della vita. Mi sento solo. I miei pensieri diventano macigni da portare sulla schiena come quelli delle vecchie donne-lumaca di Michael Ende. Devo uscire.

Che succede oggi?

Scivolo lentamente di fronte alla libreria. In bella vista un mi colpisce un autore: Nietzche. Oggi è sabato. Dio è morto. Che il filosofo avesse ragione in qualche modo? Silenzio.

Mi inerpico lungo la strada panoramica della collina. Sul piccolo spazio che domina la mia città vedo una donna. È in piedi e guarda l’orizzonte. La conosco: è una giovane mamma dal viso dolcissimo. Da poco ha perso il figlio. Si è sacrificato per i suoi amici. Gli occhi della madre sono gonfi e tristi ma il portamento è alto e fiero. Posso solo immaginare lo strazio del suo cuore. Non mi sento di salutarla ma lei mi ha sentito. Si gira e i suoi occhi incontrano i miei. Mi riconosce. Le sue labbra strette in una espressione di ferma tristezza si aprono a un sorriso.

E d’un tratto accade: in me si riaccendono i colori. Il peso dei ricordi si trasforma in cicatrici ormai guarite. La valle ai nostri piedi si colora di verde e dei colori della primavera. Sento anche qualche uccellino cantare. Un cane abbaia e un gallo canta. Anche sul mio viso appare un sorriso. Lei mi prende una mano e mi consola. Insieme guardiamo l’orizzonte. Nella mia mente appare il ricordo di una canzone:

  • Guarda l’albero là, prigioniero della neve:
  • quanta forza c’è il lui che vorresti avere tu.
  • E pensare che resisterà,
  • perché niente può morire mai,
  • perché siamo briciole d’eterno
  • noi e gli alberi caduti di un inverno
  • che poco a poco
  • sulla terra e nel cuore finirà.
La madre sembra leggermi dentro. Prende le mie mani, mi guarda negli occhi carichi di speranza e con voce ferma dice: «Mio figlio vive!»