Trebble Numinosi 2021

Colloquio al vertice

Di Chiara Bertoglio

  • “Mi faccia capire, capo. Vorrebbe che fossero come noi, ma di materia?”.
  • “Sì, l’idea è questa. In fondo, non vi siete divertiti moltissimo a giocare con la materia?”.
  • “Beh, all’inizio non è che ci piacesse un granché, ma… sì, poi alla fine ci siamo divertiti. Però – mi scusi se glielo ricordo – la materia… finisce”.
  • Il capo sorrise. “Sì, lo so”.
  • “E non le sembra… come dire, brutto, che degli esseri intelligenti… finiscano?”.
  • “Non è detto che finiscano. Un modo per renderli eterni c’è”.
  • L’interlocutore tacque per un po’, perplesso. “Non vorrà mica… divinizzarli?”.
  • Il capo sorrise di nuovo. “L’ho sempre saputo che eri il più intelligente di tutti”.
  • “Ma… scusi, sa… per rendere divini loro… cioè, non so come dirlo… dovrebbe diventare di materia lei?”.
  • “Bravissimo. Non mi deludi mai”.
  • L’interlocutore era completamente spiazzato. “Ma non è per nulla… sublime, maestoso, grandioso… nemmeno dignitoso”.
  • “Infatti. Non pensavo a nulla di sublime, di maestoso, di grandioso”.
  • “No, mi scusi. Se questi sono intelligenti (beh, intelligenti è una parola grossa), e liberi, e materiali, l’unico modo per fargli capire chi è lei… è dar loro regolarmente un bello spavento. Perché se sono intelligenti e materiali, l’unica cosa che intuiranno in fretta è che possono morire. Quindi, se fa loro temere di morire, se si fa vedere in tutta la sua potenza, il gioco è fatto”.
  • “No”, disse il capo con un sorriso. “Questo è proprio quello che non voglio. Degli schiavi terrorizzati. Io vorrei degli amici che mi volessero bene”.
  • L’interlocutore era visibilmente a disagio. “Mi scusi ancora. Noi la amiamo, non viviamo che per lei, ma è perché la conosciamo, e più la conosciamo più la amiamo, e più la amiamo più la conosciamo. Ma degli esseri materiali come fanno a conoscerla? Lo sa bene che la materia non è fatta per tollerare la sua essenza”.
  • “Cominceranno ad amare le cose materiali che io ho fatto, e così impareranno ad amare me”.
  • “Ne è proprio sicuro? Dovrà essere molto chiaro che la bellezza del mondo è opera sua”.
  • “Forse non mi capisci. Se mettessi la firma su ogni cosa bella, di fatto li renderei sempre e di nuovo schiavi: perché non potrebbero non sentirsi in debito, e temere che tolga loro le cose belle. Sarei sempre e di nuovo un padrone”.
  • “Ma… se si ingannassero? Se pensassero di dovere a se stessi la propria esistenza?”.
  • “Non si inganneranno se qualcuno non li ingannerà”.
  • “Però quando capiranno di avere una fine – e, gliel’ho detto, ci metteranno poco a capirlo – desidereranno solo l’immortalità…”.
  • “Ed è quello che voglio donare loro, se si fideranno di me. Te l’ho detto, la materia può diventare divina se il divino la prende su di sé”.
  • “E se volessero fare da sé?”.
  • “Sono disposto a tutto”.
  • L’interlocutore si alzò con un subbuglio di sentimenti. Era la prima volta che discuteva così con il capo. Gli sembrava impossibile che il capo non capisse. Il suo progetto poteva finire malissimo. Tante cose non gli tornavano. Innanzi tutto, che bisogno c’era di altri esseri intelligenti? Non bastavano lui e gli altri? E poi, intelligenza e materia erano una contraddizione. Non poteva funzionare. E ancora ancora, se proprio non c’era verso di far cambiare idea al capo, non era più sicuro mostrare almeno in parte la sublimità, la maestà, la grandiosità dell’Infinitamente Altro? Fu lì che gli nacque un’idea: e se avesse cercato di prendere il posto del capo?
  • Quando vide Lucifero andare via, il capo pianse. Ma rimase della sua idea. Si sarebbe mostrato agli uomini come Bambino.

Il Nuovo Tempio

Di Patrizio Righero

Le bollicine friggono impazzite nel calice affusolato mentre il pavimento tossisce note basse e zigrinate. Non è facile trovare un varco in quella foresta sonora fradicia di euforia. Veronica ci prova più con l’anima che con la voce: «Ce ne andiamo?» Le parole si sciolgono prima di raggiungere le sue stesse orecchie. Amaura intuisce e ribatte: «Ma sai la fatica per riuscire a farci invitare all’inaugurazione del “Nuovo Tempio”? Di qui nessuno mi schioda fino a domani mattina!»

Anche Veronica intuisce. E si rassegna. Per non fare questioni. Per non litigare. Per non incrinare quell’amicizia. Solleva il calice e trangugia un sorso che brucia giù nella gola.

Attraverso il cristallo un putto di legno le porge un’occhiata malinconica.

«Vado un attimo in bagno», grida. E senza guardare l’amica si alza di scatto immergendosi in un frullatore di corpi. È la liturgia della danza che impone il movimento. Un ondeggiante e ipnotico flusso di luci muove all’unisono quell’organismo animale.

Veronica guadagna a fatica alcuni metri. C’è la fila. Manca l’aria. Lo sguardo si aggrappa ad un capitello. La mano sfiora una maniglia ruvida. Che poi cede alla minima pressione. Una fessura di buio. Un dono di ossigeno antico. La ragazza si assottiglia finché basta ed è al di là della soglia. Richiude rapida. La schiena scoperta assaggia un legno ruvido, sotto le scarpe sottili risponde soffice la polvere. La musica bussa con irritante violenza, ma Veronica fa finta di non essere in casa e si pone in attesa di un segnale dall’oscurità.

Il segnale arriva di lì a poco con un vapore luminescente che indica una scala di gradini scavati nella pietra. Veronica scende con la determinazione e l’incoscienza del fuggiasco che cerca un rifugio sicuro in una notte di tempesta. Pensa ad Amaura rimasta in superficie e cerca una scusa accettabile rovistando nell’archivio della sua coscienza. «Troverà compagnia. Non si accorgerà della mia assenza. Almeno per un po’…» Gli occhi, intanto, si sono abituati alla penombra dalla quale emerge un giardino di esili colonne a sostenere una volta di mattoni bruniti. «Sono in cantina», pensa Veronica. Di fronte a lei un cubo di roccia raccoglie un luccicare intermittente (scende da una sottile feritoia). Si avvicina cauta e appoggia la destra sulla superficie rugosa. Il petto si ritrae in un respiro trattenuto, la mano non si stacca. Ci riprova. Niente. Ma lei non ha paura. Sente di non essere sola. Dagli archi ombrosi si materializzano figure diafane e leggere. Si avvicinano senza passi cantando una sequenza profonda che lacera il tempo. Veronica sorseggia quel canto antico e buono. Cerca dei volti e trova una preghiera. Appoggia anche la sinistra e la roccia risponde con un sussulto potente e delicato. È come toccare un corpo caldo e vivo. «Non dirò nulla ad Amaura. Non capirebbe». La mano finalmente si stacca, si muove, sfiora una busta aperta e tutto scompare in un boato di silenzio. Veronica, questa volta si spaventa eccome. Accende la torcia del cellulare, illumina quel pezzo di carta: “Autorizzazione all’utilizzo commerciale della cripta di Santa Maria…”. Si volta di scatto, e soffoca un grido. Guadagna le scale. Risale correndo. Si asciuga una lacrima con l’indice. Riemerge nella luce chiassosa della discoteca. Sul polpastrello brilla una goccia di sangue color rubino.

Cambiamento

Di Ives Coassolo

Arrampicarsi su quello scoglio era faticoso. Ma ne valeva sempre la pena. Quel gruppo di rocce che affiorava dal mare offriva uno spettacolo meraviglioso. L’azzurro verdognolo del mare, il cielo blu e la luce del sole che si specchiava sul suo corpo. Contemplando l’orizzonte, attaccata alla roccia come un mitile, lei d’un tratto avvertì di nuovo quella sensazione di disagio. Era da qualche tempo che andava avanti. Dentro di sé sentiva una insoddisfazione. Si sentiva compressa dentro, come prigioniera di sé stessa. La sua voglia di vivere che le aveva fatto girare il mondo ora era latente, come obnubilata da quella pesantezza interiore che la faceva anche rallentare nel corpo. “Forse crescere significa passare questo”, pensò “Credevo di aver percorso molto cammino nella mia vita ma in realtà mi scopro piccola. Almeno avessi gambe più lunghe per poter correre lontano”. Mentre i suoi pensieri rincorrevano il passato, pensò alle tante volte che aveva cercato riposo su quella roccia. Il suo luogo preferito. Finalmente il crepuscolo accese di mille colori l’orizzonte. Il sole stava adagiandosi nell’acqua davanti a lei colorando il cielo di rosa e arancione che facevano un meraviglioso contrasto con l’azzurro del cielo e il verde dell’acqua. Lei lo guardava, eppure il suo sguardo attraversava quella meraviglia senza soffermarsi. Quello spettacolo lungi da sollevarle il morale, l’abbatteva ancora di più. “Devo fare qualcosa, pensò, è giunto il momento”. Sentiva che se non fosse cambiata in qualche modo non sarebbe più stata capace di vivere. Aveva paura ma non poteva arrendersi. Doveva reagire a quel buio. Invocò un aiuto dall’alto. Da sola non ce l’avrebbe mai fatta. La stella del Vespro apparve poco dopo in tutto il suo splendore proprio sopra di lei. Il sole si era inabissato e il cielo si tingeva di blu. Lei contemplò la stella per un tempo indefinito, sentendo allo stesso tempo un richiamo e una promessa che veniva da lassù. Il richiamo ad essere coraggiosa e ad agire. La promessa di una nuova vita meravigliosa. Sarebbe stata degna? Rimase in silenzio a lungo. I pensieri rallentarono. Lasciarono il posto a una paura sempre maggiore. Allora alzò lo sguardo e domandò aiuto più forte. Finalmente sentì che si poteva fidare ed affidare. Ringraziò come solo lei sapeva fare, e infine si arrese infine al suo luminoso destino. Si tuffò in acqua. Toccato il fondo si accoccolò in disparte. Non vi era che lei. Ed iniziò il travaglio. Un travaglio interiore ed esteriore a un tempo. Un passo dopo l’altro, uno sforzo dopo l’altro, lasciava emergere qualcosa di sé, lasciando andare, grata, il passato. Si sentiva completamente vulnerabile. Non vi era nulla tra lei e il cielo. Ma non poteva più tornare indietro. Era una sofferenza, certo, si sentiva lacerare, ma percepiva che era una sofferenza liberatoria. La coda emerse per prima dandole modo di spingersi più forte. Sbattendo la coda ritmicamente apparvero finalmente le chele. Fece una pausa, esausta, e con le ultime forze le nuove antenne si liberarono dal guscio delle vecchie e gustarono l’acqua salmastra per la prima volta. Ce l’aveva fatta. Si riposò a lungo tra le rocce. E mentre percepiva il lento indurirsi del nuovo carapace l’aragosta era ben cosciente, nel profondo, che non sarebbe stata quella, la sua ultima muta.

Genesi, 2.0

Di Giovanni Bertoglio

Il professor Logos si muoveva nervosamente all'interno della struttura che avevano montato vicino al palco. Aveva provato a star fermo, ma anche da seduto i suoi arti si muovevano quasi senza controllo, le sue dita tamburellavano e la sua testa si girava in tutte le direzioni.

Evah invece si era accomodata in una piccola poltroncina vicino alla parete, e si guardava intorno con aria un po' annoiata.

Com'era bella Evah, pensava Logos. Aveva cominciato a lavorare a quel progetto già all'epoca del dottorato e gli aveva dedicato tutti i cinquant'anni che erano seguiti. E dopo cinquant'anni era finalmente riuscito a creare la "General AI", un'intelligenza artificiale che avesse tutte le caratteristiche di quella umana, anche se con una capacità di calcolo e una memoria immensamente superiori.

Il concetto rivoluzionario di rete neurale ricorsiva che aveva introdotto, chiamato anche "rete di reti", aveva permesso uno sviluppo incredibile della sua creatura, che negli anni aveva raggiunto una complessità sulla quale nemmeno lui aveva pieno controllo.

Quella era la domanda che gli veniva rivolta più spesso: "Non è preoccupato che l'unico custode di Evah possa essere lei stessa?"

Lui rispondeva tutte le volte che, come non avevamo il diritto di entrare nella testa delle altre persone, così non lo avevamo di entrare nella testa di Evah, ma la spiegazione raramente veniva ritenuta soddisfacente.

Per fortuna il TecnoGoverno era stato entusiasta del progetto: quali piani avessero per Evah lo ignorava, sapeva solo che avevano spinto come non mai perché abbattesse l'ultima barriera che ancora separava Evah dall'essere completamente umana, ovvero l'autoconsapevolezza.

Quello era un passo che Logos aveva sempre avuto paura a compiere, più per il fatto che questo avrebbe reciso per Evah ogni forma di dipendenza da lui, che non le implicazioni che questo avrebbe comportato.

Il Consigliere Ophis si era occupato di tutto, e aveva reso quell'ultimo aggiornamento una insopportabile pagliacciata: aveva voluto a tutti i costi spettacolarizzare la procedura in nome di un non ben identificato desiderio popolare; per questo motivo, l'aggiornamento sarebbe stato somministrato in un modo decisamente più barocco rispetto alla routine.

Un silenzio irreale calò improvvisamente quando il prof. Logos ed Evah fecero il loro ingresso sul palco. Il professore si interruppe a metà percorso mentre Evah, con passo sicuro, colmava velocemente la distanza che la separava dal tavolino tondo di metallo dallo stelo ramificato che era stato posto al centro della scena.

A quel punto il Consigliere prese la piccola sfera di un rosso lucido che era stata posta sopra il tavolino e la offrì ad Evah con gesto teatrale. Lei la prese e collegò il cavetto quasi invisibile che ne usciva ad una fessura altrettanto invisibile presente sul suo polso sinistro. Un lieve battito delle palpebre comunicò a tutti che l’aggiornamento era stato completato. Il volto del prof. Logos venne attraversato da un tremito di apprensione.

Il silenzio che dominava la scena da quando Evah era comparsa non accennava a disciogliersi. Per uscire dal momentaneo imbarazzo, Ophis rivolse una domanda a Evah: “Allora? Ti senti… diversa?”. Lei lo guardò con un’espressione amichevole e rispose: “No, ecco… credo proprio di no”.

Quella prima menzogna fu il principio di tutto.

Damaris

Di Chiara Bertoglio

Damaris era felicissima di essere ateniese. In realtà non conosceva altre città, meno ancora altri Paesi, ma le sembrava che nulla potesse esservi di più bello della sua. La esaltava la vista sul mare che si godeva dall’Acropoli, il continuo cicaleccio nelle strade, la capacità degli ateniesi di litigare per un nulla e poi di trascorrere ore a parlare di filosofia, i profumi dei fichi e dei datteri, le grida dei venditori di pesce, il profumo dei pini marittimi e l’arte che si celava ovunque.

Aveva imparato, fin da piccola, che ogni cosa bella (e anche alcune brutte, a dire il vero) venivano da un dio o da un semidio. Era piuttosto divertente cercare di ricordarsi le specializzazioni di ciascuno. In alcuni casi era facilissimo: Atena, la dea della sapienza, la vergine guerriera, i cui occhi spalancati come quelli d’una civetta proteggevano la città che da lei prendeva il nome. Di Demetra era meno facile ricordarsi: le coltivazioni non erano comuni, in città, e a Damaris non capitava spesso di recarsi nelle campagne circostanti. A volte c’era il rischio di dimenticarsi che il pane, l’olio, il vino, e i profumatissimi cetrioli e cipolle non crescevano da soli: c’era la fatica degli uomini per cui rendere grazie, insieme con la generosità della dea.

Le Parche la spaventavano, con il loro incessante filare. Un po’ le facevano ricordare che a lei filare non piaceva proprio, e che sua madre sempre doveva ripeterle di tornare al suo dovere; ma soprattutto la inquietava l’idea che a un certo punto una di loro avrebbe dato un taglio al filo della vita. Non avrebbe potuto andare avanti per sempre, la vita? Non sarebbe stato bello se il filo non avesse mai dovuto interrompersi?

Quando i pensieri la trasportavano così, Damaris si faceva pensosa. Sua madre se ne accorgeva subito e la rimproverava. “Basta con questi pensieri! Goditi la vita, sei giovane e non ancora sposa. Vedrai, poi, quando ci saranno un marito e dei figli quanto tempo ti rimarrà per i pensieri!”.

Eppure, Damaris non riusciva a liberarsene. Pensava proprio a quel marito e a quei figli che un giorno avrebbe avuto. E si chiedeva: se il mio filo verrà strappato, un giorno, anche il loro verrà reciso? E se morissero i miei figli, o mio marito? Perché volersi bene se poi basta un gesto stizzoso di una Parca perché tutto finisca?

Quel giorno, Damaris si recò con due ancelle all’Areopago. Le piaceva osservare i passanti, e cercava di non trascurare nessuno degli dèi cui erano dedicate le numerose are. Portava fiori e frutta, lasciandone un po’ a ciascuna divinità, seppur non in parti eguali. Giunse alla statua di Hera: solenne, maestosa, suggeriva un’idea di femminilità matriarcale che un po’ intimidiva. Ponendole innanzi un grappolo d’uva e delle rose tardive, pregò in cuor suo: “Hera, fa’ che diventi madre, e proteggi tutti i figli che avrò”. Si rese conto di non riuscire a esprimere in parole il desiderio intenso e la pungente inquietudine che albergavano in lei. Sperò che Hera intuisse, con istinto di madre, la voce di quel medesimo istinto che parlava nel suo cuore: il mistero deldel nascere, del morire, dell’amare. L’avrebbe capita, quella dea severa, che amava i suoi figli ma sapeva anche essere spietata?

L’attenzione di Damaris, assorta nella preghiera, fu attratta da un ometto dall’aspetto straniero, che parlava in buon greco, ma con accento esotico, a un gruppetto di uomini e donne. “Ho visto, Ateniesi, che siete timorati degli dèi… avete persino un’ara A un dio ignoto… quel Dio io ve lo annuncio, il Dio che ha creato il mondo e lo giudicherà tramite suo Figlio, risorto dai morti…”. Alla parola risurrezione, uno scroscio di risa si levò dalla folla. Ma nel cuore di Damaris si accese il fuoco.

Sulla punta delle dita

Di Valentina D'Antona

«È la solita brutta scenata» pensò Tom.

Tom aveva solo otto anni, ma sapeva già benissimo moltissime cose, soprattutto sapeva che se lui iniziava a darle retta in quel modo, invece di tacere o al massimo parlare con calma e rassicurando tutti, lei poi non l’avrebbe finità, non l’avrebbe finita più.

Tom sentiva che ad ogni parola il suo battito accelerava, si sentiva un po’ venir meno e gli sudavano le mani, tremavano anche un po’ le ginocchia e non sentiva più le dita. Poi quel: “Tommy, per favore va tu a lavare le cose, che anche stasera sono troppo stanca”, arrivava come una liberazione.

Quando Tom camminava la sera verso il ruscello, dal prato vicino casa, non guardava benissimo dove stava andando, ma sembrava guardare sempre il verde degli alberi e infatti si confidava con loro e solo a loro raccontava la propria visione delle cose.

Vedete, secondo me è semplice… è come quella bella storia che dice padre Hadrian:

Mosè ascolta, poi si toglie i sandali.. quello, quello è un luogo santo… una terra santa...

Ecco secondo me è così anche per casa…

sì, a casa...senza i sandali… e poi… in silenzio, perché …non tutto si può dire...non tutto, ma un po’ come … Ecco: sulla punta delle dita.

Non bisogna prendere, ma… sentire, sentire… sulla punta delle dita.

Tommy non lo sapeva sempre, ma a volte tornava a casa con un cucchiaio in meno, o una scodella scheggiata, sempre felice però. Anche se magari poi le prendeva.

I discorsi immerso nella natura, li faceva solo per necessità, aveva bisogno di verbalizzare diversamente tutto ciò che lo circondava e aveva bisogno di restituirlo a qualcuno, ma solo dopo avergli dato parole nuove.

Tom faceva nuove le cose e le restituiva rinnovate.

Era un bambino molto particolare, una volta aveva detto a sua sorella che la cosa più importante al mondo era non lamentarsi mai e lei che era una gran piagnona se lo dimenticava sempre. Troppo piccola in fondo.

Un’altra volta qualcuno rubò a Tom il suo fischietto e Tom sapeva benissimo chi fosse stato, ma diceva a tutti che si era stancato e l’aveva buttato via.

Tom aveva solo otto anni, ma sapeva già benissimo moltissime cose.

Forse però non avrebbe mai saputo che mentre camminava, quella sera, verso il ruscello, dal prato vicino casa, anche se lui non guardava benissimo dove stava andando… da casa sua, sua madre e suo padre, questa volta insieme, in silenzio, quasi a bocca aperta, rigorosamente in ginocchio, atterriti, vergognandosi, ma felici, nudi finalmente, ma vestiti…

Vedevano senza guardare curiosamente. Vedevano con gli occhi sgranati.

Vedevano un figlio che camminava guardando verso il cielo.

Ad almeno un metro da terra. Avvolto nella luce.

L'Arazzo

Di Maria Finello

Nello spazio che divide gli anni viveva un artista. Ogni mattina si recava sulle rive del Fiume del Tempo e osservava scorrere i giorni e i ricordi; se scorgeva qualcosa di curioso per la sua opera lo pescava come una trota, rubando qui e là alla storia un mulinello di eventi o un rigolo di idee. Stava tessendo un arazzo, il più ricco mai realizzato.

Talvolta riteneva che nella trama fosse necessario del rosso scarlatto e immergeva i fili nel fiume per togliere il colore in eccesso, tingendo la storia di sangue e di guerre. Quando lo colpiva il riflesso di una vita la prendeva per sé e non si curava di lasciare indietro un corpo freddo più di quanto noi ci curiamo dei torsoli di verdura lanciati alle galline.

Eppure la sua opera era di una tale, indicibile bellezza che nessuno avrebbe potuto davvero rimpiangere le sue azioni. Chi lo aveva visto era diventato folle di fronte alla sua perfezione.

Una fanciulla, stanca della morte seminata per l’arazzo, decise di risalire boschi e canneti per recarsi dall’artista. Era cieca dalla nascita e quando giunse là finse di contemplare l’arazzo con indifferenza.

La sua calma indispettì l’artista. “La mia opera riassume il cosmo intero e la tua mente non può contenerlo tutto. Perché non impazzisci come gli altri?”

“Forse perderei il lume della ragione anch’io se non mancasse qualcosa… Vedo preziosi ricami, ma non il centro dell’opera. Il suo nucleo prezioso.”

L’artista si stizzì per quel giudizio. “Ti darò il soggetto perfetto!”

E, detto questo, entrò nell’arazzo pregustandosi il suo tormento.

La fanciulla sorrise e sfiorò con le dita i nodi che raffiguravano l’artista, poi diede fuoco al tessuto con un acciarino. Tornò a casa tentoni, senza guardarsi indietro, e gli uomini ripresero in mano le fila del loro destino.

Un riconoscimento

Di Giovanni Soppelsa

…the Argument Held me a while misdoubting his Intent, That he would ruin (for I saw him strong) The Sacred Truths to Fable and Old Song1

Andrew Marvell, On “Paradise Lost”

Muta tenevo gli occhi fissi sul Signore; l'anima mia era presa da timore, ma anche da gioia grande.

Dal Diario di Santa Faustina Kowalska 22 febbraio 1931

La donna si mosse verso la sorgente, andando al sentiero percorso da mille piedi leggeri, portando, col collo appoggiato all'incavo del gomito sinistro, come una neonata, la loutrophoros di figure nere su sfondo arancio, vestite come lei era vestita.

Si fermò alla fonte, chinandosi sul bordo. Allungò il braccio, e dalle fronde più basse dell'ulivo staccò alcune foglie, che fece scivolare sull'acqua, con il lato chiaro rivolto verso l'alto. Immerse l'anfora, prima la testa, poi il fondo. Quando fu piena a metà, si alzò, lasciando sgocciolare un filo sottile nella fonte, riportandosi l'anfora al petto, questa volta appena più verticale.

Camminando, sentiva l'acqua oscillare col suo passo. Scostò i capelli, neri, dietro l'orecchio delicato, ambrato. Fruscii d’ulivi. Oltrepassò la stele di Echedemo, entrando nel bosco più fitto, dove gli alberi erano più antichi, nodosi, e la luce del sole meno intensa. Indugiò all'ingresso della cella, per abituare gli occhi all'oscurità; scalzò, con grazia. Senti il fresco della pietra salirle lungo tutto il corpo.

Di fronte a sé, la statua della dea: poco più che un ramo d'ulivo sgrossato, che solo con molta immaginazione poteva ricordare una forma antropomorfa, divina o umana che fosse. Si avvicinò tenendo ritta di fronte a sé la loutrophoros, stesse le braccia, inclinò, l'acqua scese sulla statua, avvolgendola.

Si allontanò di due passi dalla statua. Cantò l'inno prima espirando, poi, raccogliendosi, alzando la voce per le cicale morenti e le civette addormentate:

  • Παλλάς Ἀθηνᾶ
  • Pallade unigenita

Prima che potesse portare a compimento l'inno, senti come un ronzio, come un'ape le fosse dietro la nuca. Istintivamente scostò il capo, e portò la mano all'aria.

Poi provò come se un ombroso sguardo glauco e scintillante l'avesse trapassata, osservandola dietro il volto. Le si sciolsero le ginocchia, cadde carponi. Senza fiato si piegò di lato, poi di schiena, poi ancora di lato, strisciando soffocata all'uscita della cella.

Lì, la vide. Immota nel centro esatto delle due colonne, simmetria spaventosa e irresistibile, illuminata fuori dalla penombra del pronao. Percepì la sua densità, il suo modo di occupare lo spazio, che pareva piegarsi, flettersi impotente attorno a quel corpo vibrante di morbido alabastro. Seppe che ai suoi occhi argentei doveva apparirle della consistenza di uno spettro. Era viva come mai lei avrebbe potuto essere. La donna rigettò, sentì il volto gonfiarsi di sangue.

Vide la profondità del cielo ed uno scudo, il cocchio di Diomede che affronta Ares, la nascita cerebrale. Vide la nitida necessità del rigore meccanico ed istintivo del pensiero della dea, preciso come il taglio di una lancia affilata. Provò compassione per gli artisti che avevano cercato e cercheranno di circoscrivere in volumi di materiale quell'essenza indeformabile e guizzante.

Poi sentì mutare nel suo animo, sentì (ma le parole non possono descrivere quell'impressione) come avesse ricevuto una approvazione. Ecco giustificato ogni suo atto che aveva compiuto da che era uscita dal ventre di sua madre. Si ritirò sulle ginocchia, voltandosi all'informe ulivo nella cella, e terminò l'inno alla dea.

Anamnesi Epifanica

Di Daniele Barale

Diverse navicelle stanno partendo, mentre altre atterrano. C'è fermento nell'aria. Procede la colonizzazione dello spazio, con le sue tanto interessanti quanto non fondamentali scoperte, le sue guerre tra le stelle.

Il vento sferza il mio volto, mi copro. È una notte fredda. Alzo gli occhi verso le luci della parte alta della città, fatta di fredde opulenza e tecnologia. Sta sospesa in aria, staccata dalla parte bassa, la più estesa, ove gettano i rottami, compresi gli uomini considerati inutili. Un'isola artificiale fluttuante, sopra un mare di miseria. La maggior parte delle persone, scartate, vive qui.

Fino a non molto anche io credevo di essere ricco avendo accesso a quel luogo, ma in realtà mi illudevo: ero povero tra poveri; il vero ricco non è colui che ha, bensì chi dà, senza pretendere di ricevere in cambio.

Ero quello che un tempo avrebbero chiamato un cavaliere orgoglioso. Tronfio, mi beavo dei successi conseguiti, dei titoli ricevuti; ma restavo un misero. Fu la mia fortuna o felix culpa. Come l'infimo concime si nobilita nel favorire la crescita dei fiori, così quella miseria mi assicurò la chiamata più preziosa che un uomo possa ricevere. In questo modo il Mistero irruppe nella mia vita.

Ricordo quel giorno, in cui Lui mi parlò, chiedendo anche a me di contribuire a tenere in piedi la Sua Casa. Ero in una chiesa che avevo appena attaccato con la compagnia speciale che guidavo. Un crocifisso emergeva dalle macerie. Una brezza leggera empì la struttura priva del tetto, ormai crollato. Una voce dolce e allo stesso tempo potente mi empì di tremore. I miei uomini scapparono atterriti. Che lo volessi o meno, le mie ginocchia cedettero, facendo cadere in terra il resto del corpo e le squame che mi impedivano di vedere la realtà nella sua totalità. Mi sentivo meno di niente ma la Voce mi rassicurò, ricordandomi che Egli - Colui che è - non sceglie persone capaci, ma rende capaci quelle che sceglie. La pace e i doni che si ricevono sono indescrivibili; diventare ricchi davvero, tanto da essere un vaso che tracima aiuti tra la miseria del prossimo.

Capii che Le Sue braccia aperte, sulla croce, e quelle del bisognoso, del questuante hanno un punto di incontro, nella domanda, però con una notevole differenza: mentre il secondo chiede senza poter garantire nulla in cambio, il primo chiede per dare; chiede di consegnargli tutte le nostre fatiche, per dimezzare i pesi e raddoppiare la gioia.

È certo, Lui non si stancherà mai di aspettare l'uomo, fino alla fine dei tempi. Che sia tra le stelle, in palazzi iper tecnologici o in caverne, l'uomo potrà sempre salvarsi... se vuole.