Racconti 2021

Seguendo lo iudicio di costei

Di Giovanni Soppelsa

Pausania sostiene che alle pendici dell'Acrocorinto fosse un tempio dedicato ad Ananke, Necessità dagli occhi vergini. Pellegrino, non ne vidi che un mutilo capitello, durante il mio vagare ineludibile.

Ho amato una donna dalla pelle bruna, con la figura sottile di uno slancio ardito, fragile e viva come una vespa. Morì per un mio giusto peccato: ma zelante nella sua credenza orientale nella Dea, non caricò la colpa sulle mie nefandezze impotenti: rivedo il suo collo fine stretto nel laccio di seta. Da anni ruoto verso il tramonto: ora vecchio, tramonto me stesso in una città straniera, dove l' ogiva luminosa racchiude il Cristo Ebreo trapassata di luce. Mendicante nel tempio della dolce dea velata di queste terre, gratto con una pietra su una pietra i sei glifi del Nome che ha giustificato il tempo della mia vita di vedovo.

Secondo Parmenide perfino l' Essere è avvolto dai possenti vincoli cordacei di Ananke. Gli iperborei circondano il cosmo con un serpente annodato. Ora sogno l'ultimo sogno dei miei giorni: tra molte lunazioni, vedo un uomo leggere questa mia incisione, e sognare la donna che ho amata. Fatalmente, anch' essa sarà soffocata.

E io ch’avea d’error la testa cinta

Di Patrizio Righero

Il professor Buhayra l'aveva trovata per caso, scavando una tomba troppo ordinaria per riservare sorprese. Fin da subito gli fu chiaro che quella lapide avrebbe cambiato la storia della cosmoarcheologia. Da decenni lui e la sua équipe lavoravano, senza alcun successo, alla decifrazione dei geroglifici del pianeta UAAR. Avevano elaborato mille teorie, ma senza un testo di confronto era impossibile capire che cosa significassero quei simboli. Ora finalmente il mistero sarebbe stato svelato. La cosa più sorprendente fu constatare che la lapide recava incredibili analogie con la Stele di Rosetta: lo stesso testo in geroglifico, in un alfabeto sconosciuto e in greco antico. Fu necessario far giungere un terrestre per decifrare quest'ultima lingua, ormai nota solo a pochi accademici. Non appena giunto sul sito, l’anziano studioso fu accolto da Buhayra che gli espose la sua ipotesi: «Sono quasi certo si tratti di un inventario, il corredo del defunto con ogni probabilità».

  • «Non credo proprio», lo contraddisse il linguista leggendo ad alta voce le prime parole: Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν…
  • «Dunque?», lo incalzò impaziente l’archeologo.
  • «È l’inizio del Vangelo – rispose -. Del Vangelo di Giovanni, per la precisione!»

Con l'ali aperte e sovra i pie' leggero

Di Maria Finello

Ogni mattina il tramonto della luna interrompe i suoi limpidi sogni di fanciulla. Si alza dal suo giaciglio al confine del mondo, indossa una veste di nubi spumose e si adorna con la rugiada colta nei campi. Cammina scalza tra i rivoli e i mormorii del disgelo e acquieta il canto dell’ usignolo con la nenia delle cicale. Danza con i fiori: giacinti e narcisi, pervinche e mughetti si vestono a festa e inseguono il suo sorriso lucente. Gioca con il vento, di cui è ilare amante, e la brezza le accarezza la pelle intessuta di raggi dorati. Corre sui monti, rapida come un giovane falco: sorvola leggera le creste e le vette, volteggia tra le fronde dei faggi e ricopre con il suo tiepido abbraccio le valli fragranti di timo. I suoi passi scandiscono il ritmo del tempo. Il mare ne accoglie la venuta con il proprio omaggio cangiante e offre in dono il suo eterno mutare. Color del mercurio e del vino, di nebbia e di gemme. La terra celebra con cori trionfali il dono di luce di questa dea bambina. Ogni nuovo giorno è intessuto del riso dell’ Aurora.

Che la fenice more e poi rinasce

Di Ives Coassolo

Cleopa guardava tristemente la sedia vuota. Il Maestro non c'era più. Lui si sentiva incapace di portare il peso e la responsabilità dei suoi insegnamenti da solo. Non restava che tornare a casa. Così pensava. In fondo la strada era quella. Lui sperava che il Maestro non lo averebbe lasciato mai. E così pensavano anche gli altri che lo avevano conosciuto e che ora, dispersi, rientravano alle proprie abitazioni. La forza del Maestro era notevole. E le sue parole dissipavano i pensieri bui dal cuore di tutti coloro che lo incontravano. E invece ora rimaneva solo il vuoto. Solo sette anni luce lo separavano dal luogo che aveva lasciato speranzoso. Il ronzio della porta scorrevole si aprì interrompendo il fluire dei suoi pensieri.

«Imparare a comunicare con Lui io ti insegnerò», disse Yoda, entrando sorridendo. Il cuore di Cleopa sobbalzò mentre l'intelletto faticava a focalizzare. Stiracchiando il suo codino da padawan esclamò: «Insegnami subito. Voglio risentire la sua voce!» Yoda sorrise e sedette in meditazione. Cleopla lo imitò e tutto divenne luminoso mentre si concentravano. Il Maestro apparve loro a porte chiuse rilucendo. Il cuore di Cleopa scoppiava di gioia. Doveva presto raccontarlo a tutti. Il pianeta Emmaus poteva aspettare.

Ricenti e vecchie, da le fiamme incese!

Di Daniele Barale

Durligh riuscì finalmente ad aprire gli occhi. Il barbàglio della super arma era durato alcuni minuti ma sufficienti a lasciare sul campo buona parte dei suoi compagni. Quando la temuta guardia imperiale decise di usare il devastatore, egli ebbe appena il tempo di infilarsi dietro alcune rocce, portandosi dietro alcuni commilitoni; ora, dal riparo, oltre a sentire il puzzo di carne bruciata, vedeva fiamme tutto attorno a sé; pareva avessero portato l'inferno.

All'improvviso ricordò il giorno in cui capì che stava servendo una causa sbagliata. Allora era un promettente e ambizioso ammiraglio: assistette alla distruzione, da parte della flotta cui apparteneva, della capitale dell'ultimo pianeta libero, sebbene si fosse arresa. Quell'episodio lo portò a lasciare ogni incarico e a iniziare un viaggio, fino all'incontro con lei, la donna di cui si innamorò e che gli permise di vedere quella straordinaria forza che muove il Sole e l'altre stelle.

Durligh tornò alla battaglia; rincuorò i suoi e gli altri compagni che li avevano raggiunti; estrasse la vibrolama e ordinò di fare lo stesso, per un'ultima carica. Allorquando vennero a recuperare i loro corpi, li trovarono con i volti sereni. Avevano ottenuto la vittoria più grande: perdonato i loro nemici. Così nella galassia il potere della menzogna del sospetto dell'odio iniziò a perdere.

Calar le vele e raccoglier le sarte

Di Giovanni Bertoglio

  • "Stato della tempesta di positroni?"
  • "Completamente collassata."
  • "Quindi missione compiuta?"
  • "Confermo! L'ultimo raggio Theta lanciato dalla sua navetta l'ha intercettata e dispersa quando era ad appena un'ora luce da qui! 900.000 persone le devono la vita, io compreso."
  • "Sono così felice, Ammiraglio!"
  • "Possiamo abbandonare le formalità, ormai in sala di controllo sono rimasto soltanto io"
  • "Certo! Saranno tutti a festeggiare"
  • "Infatti. Entrerai nella zona della singolarità di Enlil, vero?"
  • "Sì, sapevamo dall'inizio che non avrei potuto evitarla. Tra poco le sue turbolenze mi impediranno di farmi spingere dal vento solare: credo ripiegherò tutti i pannelli, riavvolgerò i cavi tetradimensionali e andrò alla deriva finché i supporti vitali dureranno"
  • "Mi dispiace tanto..."
  • "Rilevo la singolarità: tra pochi istanti le trasmissioni smetteranno di funzionare"
  • "Di già? Devo ancora dirti che ti voglio ben..."

Un fastidioso fruscìo nelle cuffie, come di semi versati sul marmo, interloquì spietato.

Nessuno avrebbe creduto che l'Ammiraglio fosse capace di piangere, eppure erano lacrime quelle che gli riempivano gli occhi. Non per sé, né per i coloni, ma per sua figlia che stava abbracciando il vuoto, e per quella pietosa bugia raccontata per risparmiarle di conoscere il reale esito della missione.

Contemplò quell'ultimo, morbidissimo tramonto blu. E attese.

Poeta volsi i passi, ripensando

Di Daniele Barale

Smontò dal suo destriero il samurai. Era un uomo forte, robusto; il collo taurino era accentuato dall’armatura brunita. La sua attenzione era stata attirata da un ammasso informe e terroso lungo la strada. Sembrava un mucchio di stracci. Si avvicinò. Con una certa sorpresa si avvide che gli stracci si muovevano con una lenta cadenza. Era un uomo addormentato.

"Svegliati, pelandrone!", tuonò il samurai. Lo infastidivano questi mendicanti, pigri, oziosi e sporchi. Dagli stracci emerse un volto anziano, che lo guardò dal basso in alto, obliquamente. "Perché non fai qualcosa di utile, anziché poltrire così? Almeno togliti dalla strada, sennò il cavallo non passa!", lo apostrofò il guerriero.

  • "Il limite è un dono", gli rispose l’altro.
  • "Che vuoi dire?"
  • "Accetta che la tua strada sia ingombra; ti si aprirà il cammino".
  • "Ci mancava solo la tua filosofia, straccione!"

Il vecchio non si scompose, e lentamente iniziò a mangiare una focaccia di ceci. Poi si alzò, sempre con calma. Si fece da parte; il samurai rimontò immediatamente, e sparì al galoppo.

Quella sera, alla locanda, rievocò l’ incontro. E inatteso, imprevisto, gli sbocciò dal cuore il suo primo haiku:

  • Sorride il vecchio
  • Dai passi lunghi un sasso
  • - brezza d' autunno.

E io ch’avea d’error la testa cinta

Di Patrizio Righero

Non è per niente facile essere imperatore. È un mestiere che ti porta via ogni istante della vita. Ti assorbe completamente. Ti entra dentro e non ti lascia più. Difficile spiegarlo alla gente normale. Ciò che pesa più di tutto – ma è lei che mi distingue dalla plebe! - è la corona. Mi attrae e mi spaventa al tempo stesso. Indossarla esige un complesso cerimoniale: i servitori preposti vengono nella mia stanza alle otto del mattino e mi vestono di tutto punto. Quando mi sento pronto, do il comando e parte il corteo. Si procede – in silenzio o chiacchierando, dipende dal mio umore – fino alla sala del bianco trono. Qui mi aiutano ad accomodarmi. Io non la guardo neppure, perché so già come è fatta la mia corona. Sono gli altri che la ammirano con gli occhi spalancati. Io ne conosco ogni centimetro. So che è lucida. Fredda. Un po’ stretta a dir la verità (i servitori mi ungono le tempie con balsamo pregiato perché non mi faccia male). Poi il ciambellano con gli occhiali abbassa la mano e tutto brilla. È magnifica. È preziosa. È potente. Non ha nessun diadema, ma 135 volt di purissima energia. La mia corona.

Le parole tue sien conte

Di Andrea Donna

Innumerevoli volte Grigorij Sergeevič Kulagin aveva attraversato le desolazioni sterminate delle Terre dei Sogni, solcato i flutti rosati dell'Oceano dei Sospiri a bordo di una cocca dal fasciame di betulla, soggiornato per giorni presso le fattorie delle Piccole Genti, giungendo infine in vista delle azzurre guglie di Ilýs, stagliantisi, lontanissime, contro il tramonto. Ma sempre, come fa un miraggio, la città gli era sfuggita, tramontata come un astro, svanita come un'illusione o infranta dal risveglio crudele. Quella volta, invece, giunse a bussare alle Porte di Topazio: esse si spalancarono al suo tocco, accogliendolo nell'intrico di minareti di cristallo e giada riflessi nell'acqua dei canali. Dignitari e sacerdoti empirono le strade e si inchinarono al suo cospetto, come si fa di fronte a un re. Kulagin sapeva: restare per sempre a Ilýs non gli era precluso e quella scelta aveva un prezzo. Misurò le parole: «Questa è la mia casa», disse, e le Porte di Topazio si serrarono per sempre alle sue spalle.

Il cadavere di Grigorij Sergeevič Kulagin, scrittore e sognatore, fu trovato nel suo letto la mattina del 5 settembre 19**. Le mani inerti stringevano il manoscritto sul quale erano vergate, a grafia quasi indecifrabile, le righe sopra riportate.

Le corone e il cigno

Di Ives Coassolo

«Non mi prenderanno mai!», pensava maestoso il cigno nero in mezzo al piccolo lago azzurro. Ogni giorno una piccola folla si attardava sulle sponde. Veniva a vedere i bianchi cigni che roteavano leggeri sull' acqua e portava loro dei doni. I bambini lanciavano qualche briciola ma i più tiravano piccole corone colorate e quando una di queste riusciva ad abbracciare il lungo collo di uno di loro, i ragazzi saltellavano dalla gioia e tutti ridevano. Compresi i cigni. Ma non potevano darlo a vedere: ridevano "dentro", dignitosi e indifferenti all' apparenza. Quando un cigno riceveva la corona si alzava in volo e spariva per un certo tempo. Poi puntualmente ritornava senza più la sua insegna regale. Il cigno nero era il preferito dei bambini. Nessuno però riusciva mai ad incoronarlo. Era sfuggente. Una volta scansato abilmente il lancio, egli nuotava al suo posto altezzoso e splendido ridacchiando, come sempre, sotto i baffi. D' un tratto, ogni volta, la folla intorno al piccolo lago si scioglieva veloce, come spazzata via da un vento misterioso. Era allora che i cigni vedevano sparire il cielo attorno al lago sotto un rumore di metallo. Il luna park anche per quel giorno chiudeva i battenti.

Ad Aleppo, come quartiermastro del Tigri

Di Giovanni Bertoglio

Guardò in basso. La città si estendeva sotto l'aeronave in tutta la sua grazia: una perla abbracciata dal deserto, con al centro la Cittadella, da tempo immemore sua silente guardiana. Il sole, titubante nel tramonto, sembrava una scimitarra semicoperta da un drappo di velluto. Quella sera, in assenza del capitano, avrebbe dovuto impartire lui stesso gli ordini sull'aeronave - un vero onore - ne esisteva solo un'altra in tutta la flotta in grado di sfruttare la nuovissima propulsione a fiume di gravitoni; essendo state varate insieme, tanti cadetti le chiamavano scherzosamente "le gemelle".

Dedicò quegli ultimi minuti di pausa al ricordo di quando amava perdersi proprio tra quelle stradine fatte di terra, e quel cielo, fatto anch'esso di terra. E si rammentò del vecchio Marduk che forse, adesso come allora, stava coricando alle prime ombre della sera la sua lieta stanchezza, laggiù, da qualche parte, nel quartiere sud.

Una vibrazione ritmica alla tempia lo informò che era ora di dirigersi verso la prua dell'aeronave, nella Ziggurat di comando.

  • "Siamo in posizione" gli comunicò un ufficiale.
  • "Avete aggiornato l'astrobase di Ur?"
  • "Signorsì"
  • "Bene. Sganciate."

Un attimo dopo la bomba ad antimateria cadde delicatamente, mutando in luce tutto ciò che incontrava sul suo cammino.

Disse, "lo ’ngegno tuo da quel che sòle?

Di Giovanni Soppelsa

Un teologo, un abate ed il frate andavano verso la grande città: una festa era attesa nella cattedrale. Il teologo lodò l’ ortodossia che il Signore ispirava, la carità decorosa e diffusa, l’ intagliata precisione del pensiero; l’ abate la temperanza degli editti, l’ equità delle decisioni, l’ amministrazione oculata di cielo e terra; il frate sgranava un rosario corallino. "Non dici e pensi nulla?": affondò lo sguardo dentro il saio. Il loro cuore si fece pesante: erano tempi oscuri e i popoli partorivano ogni giorno un figlio ripudiato. Indugiarono per il pasto dei pellegrini. Il teologo levò dal tascapane della carne, l’ abate una pentola, il frate nella saccoccia teneva un lungo coltello. Nutrirono sé stessi; il frate pugnalava il fuoco assorto. Partirono prima dell’ alba, che già si intuiva nel bagliore dietro la collina da cui avrebbero visto la città. Con orrore appresero che non era il sole nascente: ogni cosa era in fiamme, saccheggiata. La bianca cattedrale era avvolta in sudari di fumo e nero rovente. "È persa ogni speranza" disse il teologo; "come credere, ora?" pianse l’ abate. Il frate estrasse il coltello. "Che fai?": avvolse il rosario attorno al polso. "Vado a morire col Signore".

Fosse solo un'aberrazione ottica?

Di Patrizio Righero

Superata in volo la superficie del lago, l’accampamento nemico gli apparve nella sua interezza come un immenso rombo: l’apice basso a lambire la costa, quello alto - invisibile da terra - incuneato tra le colline e le montagne.

Haytham diede un vigoroso colpo d’ali e si alzò ancora di qualche metro per poi raggiungere, in planata, il vertice ovest. Di qui poté rapidamente fare un conteggio preciso dei reggimenti e delle micidiali macchine da guerra pronte a colpire. Operò quindi una brusca virata, si sollevò alto sullo specchio d’acqua e scese in rapida picchiata sul castello.

L’atterraggio si dimostrò più arduo di quanto avesse ipotizzato e la durata dell’incantesimo più breve del previsto. Si ritrovò pertanto a rovinare nella polvere dove la sua ala – prima – e il suo braccio – l’istante successivo – assaggiarono la durezza del suolo.

Ancora più duro, però, si rivelò lo scontro con gli esploratori che, di ritorno dalle rive boscose del lago, riportavano una diversa valutazione delle forze avversarie. Fu il re, da sempre ostile alla magia, a prendere la decisione di fidarsi maggiormente dell’occhio umano.

Haytham, ferito, non poté far altro che assistere impotente ad una tragica e irreparabile sconfitta.

Gn 6,4

Di Chiara Bertoglio

I Micrandri ci invidiano, lo sappiamo bene. Si credono più furbi – non fanno altro che vantarsene – ma poi basta niente per schiacciarli. Mio padre me l’ ha insegnato. Ha lasciato il suo Paese perché pensa che sono i deboli che hanno bisogno degli altri e del Padrone, mentre i forti possono farsi da sé. Questo è parlare! A me piace, questa vita. Quando mi alzo al mattino vedo il mare, il mio gregge, gli olivi e gli scogli. Mio padre è ambizioso; dice che con i bicipiti che mi ritrovo dovrei far carriera a forza di botte. A me non è che importi, di essere re o chissà cosa. Mi basta sapere che come me non c’ è nessuno e che posso fare quel che voglio. Nessuno mi può comandare.

Adesso nella grotta ho sistemato un po’ di Micrandri; me li mangerò anche se mamma dice che non si fa. Ma tanto sono io che decido. Come me non c’ è nessuno. Uno dei Micrandri mi ha fatto bere una roba squisita, dolcissima. Per ringraziarlo lo mangerò per ultimo. Mi ha detto che si chiama Nessuno. Con lui chiuderò un occhio. Anzi, l’ Occhio. Come me non c’ è Nessuno.

Aristìa dell’eroe senza nomi

di Valentina D'Antona

Il fabbro lo compativa, ma lo riteneva inadeguato all’impresa per via di suo padre, di sua madre, del suo villaggio. Le sue parole giungevano familiari come una tentazione, dolciastre e insidiose.

Le ascoltò.

Fu allora che il giovane si ritrovò nella fossa profonda, al cospetto del drago. Era in due posti allo stesso tempo: davanti alla bottega, ma dentro la fossa.

Le parole del vecchio si facevano largo e più il ragazzo le assecondava, più il drago diventava cattivo; il poverino stava per essere incenerito. Intanto, vicino alla bottega, cantava un uccellino.

Il suono giunse all’orecchio del giovane ed egli, con eroico valore, cercò di smettere di ascoltare il vecchio e con impetuoso coraggio lasciò che il canto felice giungesse alla mente, che la illuminasse.

Dalla sua mente sgorgò un pensiero lieto che arrivò al suo cuore.

Allora il cuore del giovane s’irradiò e da esso partì un dardo infuocato contro il drago.

Il dardo era Gratitudine.

A questo punto si ritrovò solo davanti al fabbro.

Continuava l’uccellino a cinguettare.

Il giovane sentiva blaterare il vecchio e ascoltava il canto.

Ora non avrebbe rimuginato più sulla madre, sul padre, sul villaggio, tantomeno sul fabbro.

Superata la prova, era diventato Uomo.

Gemma dell'anima

Di Andrea Donna

La capsula si inghiotte con l’acqua. Si sfalda nell’esofago: irradia allora per le membra una nota d’oro e una potenza musicale tintinna nelle fibre del condannato. Egli si libra: si issa oltre le corrusche altane della capitale, oltre il sistema di bruniti satelliti, oltre la stella in delirio. La remissione è dolce, l’atterraggio delicato come una carezza azzurrina. Lo Smeraldo è beatitudine. Lo Smeraldo è una rosa di brina. Lo Smeraldo è il mare mattutino rabescato nel cristallo.

Una volta su cinquecento, lo Smeraldo uccide.

L’alba sulle cupole di Lunàris mi ha appena restituito la libertà: ieri ho ingerito, senza morirne, l’ultima capsula a me imposta.

Disertai tre mesi fa. Mi presero il giorno stesso. Il ricettore al fosforo, attivo per novanta giorni, mi fu impiantato nel giro di un’ora a monte del cuore. Una dose al giorno di Smeraldo per inibirlo; un’ora di trasvolata fiammeggiante; ventitre ore di angoscia prima del nuovo azzardo portato in dono dall’indomani.

Nessuno, a mia conoscenza, ha mai rinunciato allo Smeraldo al termine del proprio tempo dovuto.

Non sarò io il primo. Anche oggi ingerirò la mia dose: per libera scelta.

La mia aspettativa di vita è pari a 250 giorni e 12 ore.

La ballata dei sussurri

di Daniele Barale

Quando Keith entrò nella sala col camino acceso, il bagliore faceva danzare sulle pareti le ombre dei suoi nipoti, i fratelli Benson. Era molto fiera di loro. Li contemplò per un po'; fino a quando Robert, il più piccolo, non la ridestò: "Nonnina, siamo pronti". "Bene, vi ascolto", rispose lei.

Iniziò il più grande, J. Henry, seguirono, alternandosi, Frances Edith e infine Robert. La parte finale la dissero tutti insieme: "Ma non temiamo, | ché in mezzo alla rovina, | che la furia del nulla ha causato, | maledicendo la vita, | banalizzando la morte, | come fenice, | lo splendore spirituale e materiale dei nostri padri risorgerà".

Le lacrime inargentarono i loro volti. "Nonna - disse la piccola Edith -, ora ho capito perché si chiama Ballata dei sospiri. Perché a voi grandi dona la nostalgia delle cose belle che furono, e a noi la speranza di rivederle.

La nonna ebbe appena il tempo di annuire, quando esplosioni esterne provocarono scossoni. "Sono gli adoratori del nulla", disse, "sapete come abbandonare queste catecombe marziane. Inizia la vostra missione: ridare senso agli uomini, attraverso la ballata e le storie ascoltate in questi anni".

Dolce color d'oriental zaffiro

Di Maria Finello

La torre si stagliava dalle fondamenta della terra e sovrastava rocce, vette e città. Dicevano che squarciasse lo strato di nubi e che dalla cima si potesse toccare il cielo. Ne parlavo sempre con lei: mi ascoltava con i grandi occhi turchesi spalancati e sognava con me. Era sempre al mio fianco. Fu lei a prepararmi la bisaccia e a salutarmi tra le lacrime quando intrapresi la scalata. Cominciai a risalire la torre tra imprese e tormenti: il gelo e le tenebre mi assediavano, mani e piedi sanguinavano per lo sforzo e l’ orizzonte del mondo si restringeva una pietra dopo l’ altra. Eppure il cielo mi attendeva: volevo ghermire le stelle tra le mani. Impiegai anni a salire, ma infine raggiunsi la volta di nubi. Là vidi un angelo; era maestoso, regale, e custodiva la vetta della torre dai superbi. Batté le ali sollevando un forte vento e io caddi. Precipitai, ma l’ angelo mi protesse con il suo soffio. Tutte le mie conquiste mi scivolarono tra le mani e precipitai nel fango, furente e umiliato. Tuttavia, quando alzai lo sguardo lei era lì, cristallina come l’ alba. La luce dei suoi occhi mi avvolse. Il cielo mi attendeva.